10. La missione di Sigmund Freud

di Erich Fromm

Mario Mancini
17 min readAug 8, 2020

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Salvador Dalì, “Telefono aragosta”, 1936

La precedente analisi ha cercato di dimostrare che lo scopo di Freud era di fondare un movimento per la liberazione etica dell’uomo, una nuova religione laica e scientifica per una élite che doveva guidare l’umanità.

Ma le tendenze messianiche di Freud non avrebbero trasformato la psicoanalisi in un Movimento se non fosse stato per i bisogni dei suoi seguaci, ed eventualmente per quelli del vasto pubblico, che ne furono entusiasticamente attratti.

Chi erano questi primi fedelissimi discepoli, i portatori dei «sei anelli»? Erano degli intellettuali urbani, con un profondo desiderio di impegnarsi a un ideale, a un leader, a un movimento, e allo stesso tempo privi di qualsiasi ideale o convinzione religiosi o politici o filosofici; fra di essi non c’era nessun socialista, sionista, cattolico o ebreo ortodosso (può darsi che Eitington avesse qualche simpatia per il sionismo).

La loro religione era il Movimento. Il crescente circolo di analisti aveva la stessa estrazione; la grande maggioranza era ed è costituita da intellettuali borghesi, senza interessi o impegni religiosi, politici o filosofici.

La grande popolarità della psicoanalisi in Occidente, e particolarmente negli Stati Uniti, fin dagli inizi degli anni trenta ha indubbiamente la stessa base sociale. Ecco una borghesia per la quale la vita ha perso significato.

Non hanno nessun ideale politico o religioso, eppure sono in cerca di un significato, di un’idea alla quale dedicarsi, di una spiegazione della vita che non richieda fede o sacrifici, e che soddisfi il bisogno di sentirsi parte di un movimento.

Tutte queste esigenze erano appagate dal Movimento[1].

Ma la nuova religione condivise il fato della maggior parte dei movimenti religiosi. L’entusiasmo, la freschezza e la spontaneità originali presto illanguidiscono; subentra una gerarchia che ottiene il suo prestigio dalla «corretta» interpretazione del dogma, e ha il potere di giudicare chi è un fedele seguace della religione e chi non lo è.

Alla fine, dogma, rituale e idolizzazione del capo prendono il posto della creatività e della spontaneità.

L’enorme ruolo del dogma nella psicoanalisi ortodossa difficilmente ha bisogno di una prova. In cinquantanni, c’è stato uno sviluppo relativamente scarso al di là delle innovazioni teoretiche dello stesso Freud [2].

Si sono principalmente applicate le teorie di Freud al materiale clinico, sempre con la tendenza a dimostrare che Freud aveva ragione, e prestando scarsa attenzione alle altre possibilità teoretiche.

Persino lo sviluppo più indipendente, la nuova accentuazione della funzione dell’Io, sembra in larga misura una riformulazione in termini della teoria freudiana di molte idee ormai note, senza portare a molte prospettive.

Ma a parte la relativa sterilità del pensiero psicoanalitico «ufficiale», il suo dogmatismo si manifesta nella reazione a qualsiasi «deviazione». Ho già riportato uno degli esempi più drastici: la reazione di Freud all’idea di Ferenczi che il paziente abbia bisogno di amore, come condizione della sua guarigione.

Questo sottolinea soltanto ciò che accadeva e accade ovunque nel Movimento. Gli analisti che criticano esplicitamente, francamente e pubblicamente le idee di Freud sono considerati come fuori dall’ovile, anche quando non hanno nessuna intenzione di fondare una propria «scuola», ma espongono semplicemente il risultato del loro pensiero e di osservazioni basate su quelle di Freud.

L’elemento ritualistico della psicoanalisi ortodossa è altrettanto evidente. Il divano con dietro la poltrona, le quattro o cinque sedute alla settimana, il silenzio dell’analista, tranne quando dà una «interpretazione»: tutti questi fattori sono stati trasformati da quelli che una volta erano utili mezzi per un fine in un sacro rituale, senza il quale la psicoanalisi ortodossa è impensabile.

L’esempio che più colpisce è forse il divano. Freud lo scelse perché «non desiderava essere fissato per otto ore al giorno». Poi furono aggiunte altre ragioni: il paziente non dovrebbe vedere la reazione dell’analista a quello che sta raccontando e, quindi, è preferibile che l’analista sieda dietro di lui; oppure, che il paziente si sente più libero e a suo agio se non deve guardare l’analista; oppure, e questo è stato sottolineato più tardi, che la «situazione del divano» crea artificialmente una situazione infantile che dovrebbe esserci per il migliore sviluppo del transfert.

Quale che sia il merito di questi argomenti — personalmente credo che non siano validi — in ogni «normale» discussione sulla tecnica terapeutica essi potrebbero essere discussi liberamente. Nell’ortodossia psicoanalitica il non uso del divano è già una prova di deviazione ed è considerato prima facie come la prova che non si è un analista.

Gran parte dei pazienti sono attratti proprio da questo ritualismo; sentono di far parte essi stessi del Movimento, avvertono un senso di solidarietà con tutti gli altri che sono analizzati, e un senso di superiorità nei confronti di coloro che non lo sono. Spesso sono molto meno preoccupati di venire guariti che della sensazione eccitante di aver trovato una casa spirituale.

Infine, l’idolizzazione della personalità di Freud completa il quadro del carattere quasi-politico del Movimento. Posso qui essere conciso e riferirmi al ritratto idolatrico di Freud fatto da Jones, alla sua negazione dell’intenso desiderio di Freud di essere riconosciuto pubblicamente, del suo autoritarismo e di ogni genere di manie umane che egli aveva.

Un altro ben noto sintomo dello stesso complesso è l’abitudine degli autori freudiani ortodossi di iniziare, terminare e intercalare i loro articoli scientifici con l’osservazione «come Freud ha già detto», anche quando tali frequenti citazioni sono del tutto superflue nel contesto dell’articolo.

Ho cercato di dimostrare che la psicoanalisi fu concepita e ulteriormente trasformata in un movimento quasi-religioso basato sulla teoria psicologica e completato da una psicoterapia. Di per sé questo è perfettamente legittimo.

Le critiche espresse in queste pagine sono dirette contro gli errori e le limitazioni inerenti al modo in cui la psicoanalisi si è sviluppata. In primo luogo, essa soffrì proprio del difetto dal quale essa mira a guarire: la rimozione.

Né Freud né i suoi seguaci ammisero ad altri o a se stessi che miravano a qualcosa di più che a delle conquiste scientifiche e terapeutiche. Rimossero la loro ambizione di conquistare il mondo con un ideale messianico di salvazione quindi furono presi nelle ambiguità e nelle disonestà che sono destinate a derivare da tale rimozione.

Il secondo difetto del movimento fu il suo carattere autoritario e fanatico, che impedì il fruttuoso sviluppo della teoria dell’uomo e portò all’istituzione di una burocrazia trincerata che ereditò il mantello di Freud senza possedere la sua creatività né il radicalismo della sua concezione originale.

Ma ancor più importante dei punti finora menzionati è il contenuto dell’idea. In realtà la grande scoperta di Freud, quella di una nuova dimensione della realtà umana, l’inconscio, è un elemento di un movimento mirante alla riforma dell’uomo; ma questa stessa scoperta affondò in una maniera fatale.

Essa fu applicata a un piccolo settore della realtà, quello delle pulsioni libidiche e della loro rimozione, ma scarsamente o per niente alla più ampia realtà dell’esistenza umana e dei fenomeni sociali e politici.

La maggior parte degli psicoanalisti, e questo vale persino per Freud, sono non meno ciechi di fronte alle realtà dell’esistenza umana e dei fenomeni sociali inconsci di quanto non lo sono gli altri membri della loro classe sociale.

In un certo senso, essi lo sono ancora di più, poiché credono di aver trovato la risposta ai problemi della vita nella formula della rimozione libidica. Ma non si può vedere in alcuni settori della realtà umana e rimanere ciechi in altri.

Questo è particolarmente vero dal momento che l’intero fenomeno della rimozione è un fenomeno sociale. In ogni data società l’individuo rimuove la consapevolezza di quei sentimenti e di quelle fantasie che sono incompatibili con i modelli di pensiero della sua società.

La forza che determina questa rimozione è la paura di essere isolati e di diventare un proscritto per il fatto di avere dei pensieri e dei sentimenti che nessuno condividerebbe. (Nella sua forma estrema, la paura del completo isolamento non è altro che la paura della pazzia).

Tenendo presente questo, è imperativo per lo psicoanalista trascendere gli schemi di pensiero della sua società, considerarli criticamente, e comprendere le realtà che producono questi schemi. La comprensione dell’inconscio dell’individuo presuppone e richiede l’analisi critica della sua società.

Il fatto stesso che la psicoanalisi freudiana difficilmente riesca a trascendere un atteggiamento liberale borghese nei confronti della società costituisce una ragione della sua limitatezza e della stagnazione nel suo stesso campo della comprensione dell’inconscio individuale.

(C’è, per inciso, una strana — sebbene negativa — connessione fra la teoria ortodossa freudiana e quella ortodossa marxista: i freudiani vedevano l’inconscio individuale, ed erano ciechi di fronte all’inconscio sociale; i marxisti ortodossi, al contrario, erano perfettamente consapevoli dei fattori inconsci del comportamento sociale, ma considerevolmente ciechi nella loro valutazione della motivazione individuale. Questo portò a un deterioramento della teoria e della pratica marxista, esattamente come il fenomeno inverso ha portato al deterioramento della teoria e della terapia psicoanalitica. Questo risultato non dovrebbe sorprendere nessuno. Sia che si studi la società o gli individui, si tratta sempre con essere umani, e ciò significa che si tratta con le loro motivazioni inconsce; non si può separare l’uomo come individuo dall’uomo come partecipe della società, e se lo si fa, si finisce per non comprendere né l’uno né l’altro).

Qual è allora la nostra conclusione per quanto riguarda il ruolo che la psicoanalisi freudiana ha svolto fin dall’inizio del secolo?

In primo luogo, si deve notare che in principio, dal 1900 agli anni venti, la psicoanalisi era molto più radicale di quanto non lo sia diventata dopo aver ottenuto la sua grande popolarità.

Per la borghesia cresciuta nell’età vittoriana, le affermazioni di Freud sulla sessualità infantile, sugli effetti patologici della repressione sessuale, ecc., erano violazioni radicali dei loro tabù, e ci voleva coraggio e indipendenza per violarli.

Ma trent’anni più tardi, quando gli anni venti portarono con sé un’ondata di erotismo e un diffuso abbandono degli standard vittoriani, le stesse teorie non erano più traumatizzanti o provocatorie.

Così la teoria psicoanalitica ottenne l’acclamazione popolare in tutti quei settori della società che erano avversi all’autentico radicalismo, cioè all’andare «alle radici», pur essendo desiderosi di criticare e trasgredire le consuetudini conservatrici del diciannovesimo secolo.

In questi circoli — vale a dire, tra i liberali — la psicoanalisi espresse la desiderabile via di mezzo fra il radicalismo umanistico e il conservatorismo vittoriano.

La psicoanalisi divenne la soddisfazione surrogatoria d’una profonda aspirazione umana, quella di trovare un significato per la vita, di essere autenticamente a contatto con la realtà, di eliminare le distorsioni e le proiezioni che pongono un velo fra la realtà e noi stessi.

Essa divenne un surrogato della religione per la media e alta borghesia che non desiderava fare uno sforzo più radicale e comprensivo. Qui, nel Movimento, trovarono tutto: un dogma, un rituale, un capo, una gerarchia, la sensazione di possedere la verità, di essere superiori ai non iniziati; e tuttavia senza grande sforzo, senza una profonda comprensione dei problemi dell’esistenza umana, senza saper vedere dentro e criticare la loro stessa società e i suoi effetti deformanti sull’uomo, senza dover cambiare il proprio carattere in quegli aspetti che importano, e precisamente sbarazzarsi della propria avidità, irosità e follia.

Tutto ciò di cui si cercò di sbarazzarsi furono certe fissazioni erotiche e la loro traslazione, e sebbene talvolta questo possa essere importante, esso non è sufficiente per il conseguimento di quella trasformazione caratteriologica che è necessaria per essere in pieno contatto con la realtà.

Da un’idea progressista e coraggiosa la psicoanalisi si trasformò in un sicuro credo di quei membri impauriti e isolati della media borghesia che non trovavano un rifugio nei movimenti religiosi e sociali più convenzionali del loro tempo. La decadenza del liberalismo è espressa nella decadenza della psicoanalisi.

Si è spesso detto che le trasformazioni dei costumi sessuali che ebbero luogo dopo la prima guerra mondiale erano in se stessi un risultato della crescente popolarità delle dottrine psicoanalitiche. Io penso che questa assunzione sia del tutto errata.

Inutile dire che Freud non fu mai un portavoce della licenza sessuale; al contrario, come ho tentato di dimostrare, egli fu un uomo il cui ideale era di controllare la passione mediante la ragione e che, nel proprio atteggiamento nei confronti del sesso, visse secondo l’ideale dei costumi sessuali vittoriani.

Egli fu un riformatore liberale in quanto accusò la moralità sessuale vittoriana di essere troppo severa e quindi di produrre talvolta delle nevrosi, ma questo è qualcosa di completamente diverso dalla libertà sessuale introdotta dagli anni venti.

Questi nuovi costumi sessuali hanno molte radici, ma la più importante affonda in un atteggiamento che il moderno capitalismo sviluppò negli ultimi decenni, la smania per un sempre crescente consumo.

Mentre la borghesia dell’Ottocento era dominata dal principio del risparmio, la borghesia del ventesimo secolo obbedisce alla regola del consumo, al principio di consumare immediatamente, senza ritardare la soddisfazione di qualsiasi desiderio, anche se relativo a un bene che non sia assolutamente necessario[3].

Questo atteggiamento si riferisce al consumo di beni altrettanto quanto alla soddisfazione dei bisogni sessuali. In una società costruita attorno alla massima e immediata soddisfazione di tutti i bisogni, vi può essere poca distinzione fra le varie sfere di bisogni. Le teorie psicoanalitiche — piuttosto che essere la causa di questo sviluppo — offrirono una conveniente razionalizzazione di questa tendenza, per quanto riguarda i bisogni sessuali.

Se la repressione e la frustrazione dei bisogni potrebbero essere causa di nevrosi, allora la frustrazione deve essere evitata con tutti i mezzi: il che è esattamente quello che predicano le agenzie pubblicitarie.

Quindi la psicoanalisi deve la sua popolarità alla nuova passione dei consumatori, piuttosto che essere la causa della nuova moralità sessuale.

Tenendo presente che lo scopo del Movimento era di aiutare l’uomo a controllare mediante la ragione le passioni irrazionali, questo cattivo uso della psicoanalisi denota una tragica sconfitta della speranza di Freud.

Anche se più tardi l’umore libertineggiante degli anni venti lasciò il posto a costumi più conservatori, lo sviluppo della moralità sessuale così come Freud poté osservarlo durante la sua vita non era certamente quello che egli aveva immaginato come un desiderabile effetto del Movimento.

Ma ancor più tragico è il fatto che la ragione, la dea del diciannovesimo secolo, alla cui realizzazione nell’uomo erano dedicati gli sforzi della psicoanalisi, aveva perduto la sua grande battaglia fra il 1914 e il 1939.

La prima guerra mondiale, la vittoria del nazismo e dello stalinismo e l’inizio della seconda guerra mondiale sono altrettante tappe della sconfitta della ragione e della sanità mentale. Freud, il fiero campione del movimento che mirava alla fondazione di un mondo della ragione, dovette essere il testimone di un’era di follia sociale sempre crescente.

Egli fu l’ultimo grande rappresentante del razionalismo, e il suo tragico destino fu di finire la sua vita quando questo razionalismo era stato sconfitto dalle forze più irrazionali di cui il mondo occidentale fosse stato testimone dal tempo dei processi alle streghe.

Tuttavia, sebbene solo la storia possa pronunciare l’ultimo verdetto, io credo che la tragedia del ruolo di Freud sia quella personale di finire la propria vita durante la follia dell’hitlerismo e dello stalinismo e nelle ombre dell’olocausto della seconda guerra mondiale, piuttosto che il fallimento della sua missione.

Anche se il suo movimento decadde in una nuova religione per coloro che cercavano un rifugio in un mondo pieno di ansietà e di confusione, il pensiero occidentale è impregnato dalle scoperte di Freud, e il suo futuro è impensabile senza i frutti di questa fecondazione.

Sto parlando non solo del fatto ovvio che egli ha fornito una nuova base per la teoria psicologica con la sua scoperta dell’inconscio e del suo modo di operare nei sogni, nei sintomi, nei tratti caratteriali, nei miti e nella religione, con la scoperta dell’importanza delle esperienze infantili per lo sviluppo del carattere, e con molte altre scoperte, forse meno fondamentali, ma del suo influsso sul pensiero occidentale in generale.

Se da un lato Freud rappresentò il culmine del razionalismo, fu lui stesso a dargli nel contempo un colpo fatale. Mostrando che le cause delle azioni umane giacciono nell’inconscio, tanto in fondo da rimanere per la maggior parte per sempre precluse allo sguardo indagatore, e che il pensiero cosciente dell’uomo controlla solo in piccola misura il suo comportamento, egli minò le basi della concezione razionalistica secondo la quale l’intelletto dell’uomo domina la scena senza restrizioni o rivali.

Sotto questo aspetto — la visione del potere delle forze del «mondo sotterraneo» — Freud fu un erede del romanticismo, il movimento che cercò di penetrare la sfera del non-razionale.

La posizione storica di Freud può essere allora descritta come quella che ha dato luogo ad una sintesi fra le due forze contraddittorie che dominarono il pensiero occidentale del diciottesimo e del diciannovesimo secolo, quelle del Razionalismo e del Romanticismo.

Ma al fine di valutare in pieno la funzione storica di Freud, dobbiamo ancora compiere un ulteriore passo.

L’approccio totale all’uomo di Freud fu parte — e forse il culmine — della più importante tendenza del pensiero occidentale fin dal diciassettesimo secolo: il tentativo di afferrare e venire in contatto con la realtà e di liberare l’uomo dalle illusioni che la velano e la distorcono.

Spinoza aveva posto le basi per questo tentativo nel suo nuovo concetto della psicologia, che trattava la mente umana come una parte della natura, operante secondo le leggi della natura.

Le scienze naturali, coronate dalle nuove insights nella natura della materia, costituiscono un altro attacco nella stessa direzione e con lo stesso obiettivo. Kant, Nietzsche, Marx, Darwin, Kierkegaard, Bergson, Joyce, Picasso, sono altri nomi che segnano lo stesso approccio alla comprensione indistorta e immediata della realtà.

Differenti tra di loro come sono, essi costituiscono l’espressione dello slancio di desiderio dell’uomo occidentale che mira a rinunciare ai falsi dèi, a togliere di mezzo le illusioni ed a comprendere se stesso e il mondo come parte di una realtà totale.

Questo è l’obiettivo della scienza, sul piano intellettuale, come è — sul piano esperienziale — l’obiettivo delle forme più pure e razionali del misticismo monoteistico e particolarmente del misticismo nonteistico orientale.

Le scoperte di Freud sono parte integrante di questo movimento di liberazione.

Anche se vennero trasformate in nuove razionalizzazioni da parte di una generazione pavida, che aveva perduto quell’appassionato desiderio di afferrare la realtà proprio di Freud, il futuro sviluppo dell’umanità — se questa sopravviverà all’oscuro periodo di irrazionalità e di follia che stiamo attraversando — è indissolubilmente legato alle insights che costituiscono il contributo freudiano.

Nel lasciare questo libro, che si è occupato della personalità di Freud e della sua missione, potremmo volgerci indietro a guardare la sua torreggiante figura, dimenticando le leggende, l’idolizzazione e l’ostilità che hanno oscurato il suo ritratto, e guardandolo come l’essere umano che egli fu.

Lo vediamo come una persona con un’appassionata sete della verità, un’illimitata fede nella ragione, e l’intrepido coraggio di puntare tutto su questa fede.

Troviamo in lui un uomo con un profondo bisogno di amore, di ammirazione e di protezione materni, pienamente fiducioso in se stesso quando questi gli sono accordati, depresso e disperato quando gli vengono a mancare.

Questa insicurezza, sia emotivamente che materialmente, lo spinge a cercare di dominare gli altri che dipendono da lui, in modo che egli possa dipendere da loro.

Questa insicurezza può anche essere il fattore che dirige le sue energie nella ricerca di ottenere la considerazione del mondo esterno; egli crede di non curarsene; pensa di essere al di sopra di questo desiderio di essere riconosciuto; eppure questo bisogno di trovare riconoscimento e fama, l’amarezza quando queste aspettative sono deluse, sono le molte potenti della sua personalità.

Il suo metodo d’attacco del mondo è vigoroso; la sua difesa è un movimento d’attacco ai fianchi veloce e penetrante.

Considera la vita come una gara intellettuale d’indovinelli che egli è deciso a vincere mediante il suo superiore intelletto. Nelle idee con le quali lavora ricerca valori e significati più profondi.

La lotta interiore con l’ambizione e il suo senso dei va lori, che spesso sono in conflitto, creano una tormentata attività spirituale. E c’è anche la sensazione malinconica che il prezzo della vittoria è superiore al suo valore.

Egli ha la capacità di agire spendendo entusiasticamente tutte le energie di cui può disporre e anche un’insaziabile capacità di sperimentazione in tutti i campi e in tutti i rapporti.

Spesso si fa valere nei particolari insignificanti e litiga con coloro che non accolgono favorevolmente le sue idee e il suo aiuto.

Ha anche una sensazione istintiva di essere troppo impressionabile e, nello sforzo di sembrare più indipendente di quello che è, litiga senza necessità con coloro che lo impressionano più vigorosamente.

Energie e ambizioni sono sempre in lotta. Inimicizia e ira lo turbano più d’una persona comune, anche se il suo autocontrollo è anch’esso più forte di quello dell’uomo comune.

Sa essere diplomatico e condiscendente, ma allo stesso tempo è una delle persone meno diplomatiche che si possano immaginare, spesso caparbia, o che fa qualcosa solo per assistere a dei fuochi d’artificio.

Ha la capacità di concentrarsi facilmente e di padroneggiare molti argomenti.

Nelle sue migliori manifestazioni, questo lo rende simile all’uomo universale di Goethe; nelle peggiori, fa di lui un dilettante; ma anche allora gli conferisce la capacità di salvarsi e di emergere con qualcosa.

È sempre vigile ai potenziali e agli obiettivi generali, interessato e incoraggiato dalle situazioni di ampia portata o di alta potenzialità, ma richiede un metodo d’espressione indipendente.

Si irrita ferocemente delle interferenze; questo lo porta talvolta a una considerevole eccentricità e presunzione, ma, allo stesso tempo, ha una delicatezza di tocco che è espressa nel suo stile e nella sua capacità di leggere nel pensiero del suo avversario e di anticiparne le azioni.

Oscilla tra la capacità di aprirsi ad una sfera illimitata del sapere umano e un approccio irrimediabilmente dogmatico e fantastico alle persone e alle idee.

Ha la capacità di suscitare entusiasmo e cieca devozione negli altri, di assumere un atteggiamento drammatico, agendo talvolta come un genio, talvolta come un fanatico. Ha la notevole capacità di portare a termine le cose eliminando senza compassione tutti gli interessi marginali o tutti gli effetti personali dispersivi.

Non è un uomo che ama; è egocentrico, pieno dell’idea della sua missione, si aspetta che gli altri lo seguano, siano al suo servizio, gli sacrifichino la loro indipendenza e la loro libertà intellettuale.

Il mondo è soltanto il palcoscenico del dramma del Movimento e della sua missione. Non è orgoglioso di se stesso personalmente, ma della sua missione, della grandezza della sua causa e di se stesso solo in quanto è il portatore del messaggio.

Vive la vita temendo il dolore di perdere quello che ha goduto; così evita la gioia e il piacere e sceglie come proprio scopo il controllo da parte della volontà e della ragione di tutte le passioni, gli affetti e i sentimenti.

Il suo ideale è l’uomo indipendente e autocontrollato, ben al di sopra della plebaglia, che rinuncia ai piaceri della vita ma gode della sicurezza di sentire che nulla e nessuno può ferirlo. È intemperante nelle sue relazioni con gli altri e nelle proprie ambizioni e, paradossalmente, anche nella sua austerità.

È un uomo solitario, ed è infelice quando non persegue le sue scoperte e i suoi obiettivi «quasi-politici».

È gentile e arguto, tranne quando si sente sfidato o attaccato; nell’insieme, una figura tragica sotto un aspetto essenziale, che egli stesso scorge chiaramente; vuole mostrare all’uomo la terra promessa della ragione e dell’armonia, ma sa che può soltanto intravvederla da lontano; sa che non vi giungerà mai, e probabilmente sente, dopo la defezione di Giosuè-Jung, che nemmeno coloro che sono rimasti con lui giungeranno alla terra promessa.

Dopo essere stato uno dei più grandi uomini ed esploratori della razza umana, egli dovette morire con un profondo senso di delusione, eppure il suo orgoglio e la sua dignità non furono mai intaccati dalla malattia, dalla disfatta e dalla delusione.

Per menti più indipendenti di quanto non fossero i suoi fedeli seguaci, Freud fu probabilmente una persona con la quale era difficile vivere, e ancor più difficile da amare; tuttavia le sue doti, la sua onestà, il suo coraggio e il carattere tragico della sua vita riempiono non solo di rispetto e di ammirazione, ma anche di amorevole compassione per un uomo che fu veramente grande.

Note

[1] H. W. Puner ha esposto questa situazione molto succintamente nella sua biografia di Freud, op. cit., p. 104.

[2] L’unica grande revisione del pensiero psicoanalitico, quella del concetto dell’istinto di vita e di morte, fu fatta da Freud stesso e non fu mai pienamente accettata da tutti gli psicoanalisti ortodossi né fu ulteriormente sviluppata. Freud stesso non intraprese mai la drastica revisione dei suoi vecchi concetti meccanicistici che, secondo la mia opinione, la nuova teoria avrebbe reso necessaria. Per queste ragioni, e in considerazione dello spazio limitato di questo studio, mi sono sempre riferito unicamente a quello che è il nucleo della teoria freudiana, nella fase precedente alla discussione dell’istinto di morte.

[3] Questo punto è stato brillantemente espresso da Aldous Huxley nel suo Il mondo nuovo; cfr. anche la discussione dello stesso tema nel mio Psicoanalisi della società contemporanea, trad. it., Edizioni di Comunità, Milano, 1970.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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