1. Autoritarismo di Freud

di Erich Fromm

Mario Mancini
7 min readJun 7, 2020

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Con lui o contro di lui

Il problema dell’autoritarismo di Freud è stato l’argomento di molte discussioni. Si è frequentemente affermato che Freud era di un rigido autoritarismo e quindi intollerante delle altrui opinioni o revisioni delle proprie teorie.

È difficile ignorare la mole di prove che suffragano questa opinione. Freud non accettò mai nessun significativo suggerimento di apportare qualche modifica al suo lavoro scientifico. O si era completamente favorevoli a questa teoria — e questo significava a lui — oppure si era contro di lui.

Persino Sachs, nella sua biografia di Freud, francamente idoleggiante, lo ammette:

«Sapevo che per lui era sempre estremamente difficile assimilare le idee degli altri dopo che aveva elaborato le proprie in un lungo e laborioso processo»[1].

E per quanto riguarda le proprie divergenze da Freud, Sachs scrive:

«Se la mia opinione era opposta alla sua, lo dicevo francamente. Egli mi dava sempre ampia libertà di esporre le mie idee, e ascoltava di buon grado le mie argomentazioni, che però ben difficilmente gli facevano cambiare parere»[2].

La rottura con Ferenczi

Il più drastico esempio dell’intolleranza e dell’autoritarismo di Freud si può trovare nel suo rapporto con Ferenczi. Ferenczi, che per molti anni era stato il suo allievo ed amico più fedele e senza pretese. Verso la fine della sua vita si convinse che il paziente avesse bisogno d’amore, l’amore di cui aveva avuto bisogno, e non aveva ricevuto, da bambino.

Questo portava a un certo cambiamento nella tecnica analitica, discostandosi dall’atteggiamento completamente impersonale e «speculare» proposto da Freud. La tecnica analitica doveva virare verso un atteggiamento umano ed amorevole nei confronti del paziente (inutile dire che per «amorevole» Ferenczi intendeva un amore materno, o materno-paterno, non amore erotico o sessuale).

Ferenczi so è confidato con una fedele amica e allieva in questi termini:

«Quando feci visita al professore gli parlai delle mie ultime idee relative alla tecnica analitica. Queste si basavano empiricamente sul mio lavoro con i miei pazienti. Avevo cercato di scoprire dalla storia raccontata dai miei pazienti, dalle loro associazioni di idee, dal modo in cui essi si comportavano — anche nei piccoli particolari e specialmente nei miei confronti — , dalle frustrazioni che suscitavano la loro ansia o depressione, e specialmente dal contenuto — sia conscio che inconscio — dei loro desideri e delle loro aspirazioni, il modo in cui essi avevano sofferto per essere stati respinti dalla madre o dai loro genitori o sostituti; e avevo anche tentato mediante l’empatia di immaginare di quale tipo di sollecitudine amorevole, anche in specifici particolari del comportamento, il paziente aveva avuto realmente bisogno da bambino, una sollecitudine amorevole che gli avrebbe consentito di avere fiducia in se stesso, di essere contento di se stesso, di svilupparsi sanamente.

Ciascun paziente ha bisogno d’una diversa esperienza, di una tenera sollecitudine che lo sostenga. Non è facile scoprire quale, perché usualmente non è quella che egli crede consciamente, ma spesso una del tutto diversa. È possibile intuire quando sono sulla pista giusta, perché subito dopo il paziente dà inconsciamente il segnale mediante un certo numero di lievi mutamenti nell’umore e nel comportamento. Persino i suoi sogni mostrano una reazione al nuovo e benefico trattamento.

Tutto questo dovrebbe essere confidato al paziente: la nuova comprensione dei suoi bisogni da parte dell’analista, il suo conseguente mutamento dei rapporti con il paziente, e la reazione evidente del paziente stesso. Ogni qual volta l’analista compie degli errori, il paziente dà ancora un segnale diventando irritato o depresso, e i suoi sogni rendono chiari gli errori dell’analista. Tutto questo può essere tratto fuori dal paziente e gli può essere spiegato.

L’analista deve poi continuare a ricercare il trattamento benefico di cui il paziente ha un così profondo bisogno. Questo è un processo per tentativi ed errori fino al successo finale, e deve essere effettuato dall’analista con tutta l’abilità, il tatto e l’amorevole gentilezza, intrepidamente. Deve essere assolutamente onesto e autentico.

Il professore ascoltò la mia esposizione con crescente impazienza e alla fine mi avvertì che stavo camminando su un terreno pericoloso e stavo allontanandomi fondamentalmente dalle consuetudini e dalle tecniche tradizionali della psicoanalisi. Questa condiscendenza alle aspirazioni e ai desideri del paziente — non importa quanto genuina — aumenterebbe la sua dipendenza dall’analista. Tale dipendenza può essere unicamente eliminata dal ritrarsi emozionalmente dell’analista. Nelle mani di analisti inesperti, disse il professore, il mio metodo potrebbe facilmente portare a un’indulgenza sessuale invece di essere espressione d’un affetto paterno.

Questo ammonimento pose termine alla mia intervista. Io tesi la mia mano in un affezionato addio. Il professore mi volse le spalle e uscì dalla stanza»[3].

Un’altra espressione dell’intolleranza di Freud è il suo atteggiamento nei confronti di quei membri dell’Associazione Internazionale che non erano completamente fedeli alla linea del partito. Caratteristica è una frase contenuta in una lettera a Jones (18 febbraio 1919), in cui Freud dice:

«La Sua intenzione di epurare la Società di Londra dai membri junghiani è eccellente»[4].

La reazione alla morte di Adler

Lo stesso spirito di implacabile atteggiamento di Freud nei confronti degli amici dissidenti si può trovare nella sua reazione alla morte di Alfred Adler. In risposta a Arnold Zweig, che aveva espresso la sua profonda commozione per la morte di Adler, Freud scrisse:

«Non capisco la Sua simpatia per Adler. Per un giovane Ebreo uscito dai suburbi di Vienna morire ad Aberdeen è di per se stesso una carriera inaudita oltre che una prova del cammino percorso. Il mondo lo ha retribuito senz’altro lautamente per i servizi da lui resi come oppositore della psicoanalisi»[5].

La posizione di Jones

Nonostante tutte queste prove lampanti, i fedeli adoratori di Freud si fanno un dovere di negare che vi fosse in lui qualsiasi tendenza autoritaria. Jones ritorna ripetutamente su questo argomento; così, per esempio, egli dice che la gente parla

«della tirannica personalità di Freud e della sua dogmatica pretesa che ogni suo seguace dovesse puntualmente abbracciare ogni suo modo di vedere. La corrispondenza di Freud, i suoi scritti e soprattutto i ricordi dei suoi collaboratori dimostrano quanto queste accuse siano ridicole e false»[6].

Oppure:

«Mi riesce difficile immaginare qualcuno meno vicino di lui, per temperamento, alla figura di dittatore che secondo alcuni avrebbe rappresentato »[7].

In queste affermazioni Jones è d’una ingenuità psicologica che mal si addice a uno psicoanalista. Egli semplicemente trascura il fatto che Freud era intollerante nei confronti di coloro che lo criticavano o sollevavano il minimo dubbio nei suoi confronti.

Verso quelli che lo idoleggiavano e non erano mai in disaccordo, era gentile e tollerante; proprio perché era così dipendente dall’incondizionato consenso e accordo che gli proveniva dagli altri, da essere un padre amorevole per i figli remissivi, e un padre severo e autoritario per coloro che osavano essere in disaccordo.

La posizione di Sachs

Sachs è più franco di Jones; mentre Jones è convinto di fornire un ritratto oggettivo, come dovrebbe fare un biografo, Sachs ammette francamente la sua

«completa mancanza di obiettività, che dichiaro liberamente e volentieri… Tutto sommato, l’idoleggiamento, se è perfettamente sincero, contribuirà alla veracità piuttosto che ostacolarla»[8].

Fino a che punto arrivasse il suo attaccamento simbiotico, quasi religioso, per Freud risulta dall’affermazione di Sachs, quando dopo avere finito di leggere la sua Interpretazione dei sogni, scrisse:

«Avevo trovato l’unica cosa per la quale valeva la pena che io vivessi; molti anni più tardi scoprii che era anche l’unica cosa di cui potevo vivere»[9].

Si può facilmente immaginare qualcuno che afferma di vivere della Bibbia, della Bhagavad-Gita, o della filosofia di Kant o di Spinoza, ma vivere d’un libro sull’interpretazione dei sogni ha senso solo se assumiamo che l’autore sia diventato un Mosè e la scienza una nuova religione.

Che Sachs non si sia mai ribellato a Freud né lo abbia mai criticato risulta pateticamente evidente dalla sua stessa descrizione dell’unica occasione in cui «deliberatamente e ostinatamente» fece qualcosa che Freud disapprovò.

«Me ne parlò quando tutto era quasi finito, solo tre o quattro parole, a voce bassa, quasi come parlasse da solo. Queste parole, le uniche poco amichevoli che abbia mai udito da lui, rimangono profondamente scolpite nella mia memoria. Tuttavia, quando l’episodio ebbe fine, fu perdonato se non dimenticato, e non ebbe nessuna influenza duratura sul suo atteggiamento nei miei confronti.
Se non posso ripensarci senza sentire un po’ di vergogna, questo sentimento è temperato dal pensiero: soltanto una volta in tutta una vita, una volta in trentacinque anni. Il che non è un cattivo record» [10].

Note

[1] Hanns Sachs, Freud, Master and Friend, Harvard University Press, Cambridge, 1946, p. 14.

[2] Ibid., p. 13 (il corsivo è mio. E.F.).

[3] Comunicazione personale di Izette de Forest, allieva e amica di Ferenczi, e autrice di The Heaven of Love (Harper & Brothers, New York, 1954), che contiene un’eccellente esposizione delle nuove idee di Ferenczi.
L’intolleranza di Freud nei confronti delle nuove idee di Ferenczi trovò anche espressione nel fatto che volle che gli promettesse di non pubblicare la relazione che stava per tenere al congresso di Wiesbaden. Questa relazione è stata pubblicata con il titolo Confusion of Tongues nel terzo volume dei Collected Papers di Ferenczi (a cura di Clara Thompson, Basic Books, Inc.). Come può convincersi chiunque lo legga, si tratta di un saggio straordinariamente profondo e brillante, uno dei più apprezzabili saggi di tutta la letteratura psicoanalitica; esso contiene però alcune sottili ma importanti deviazioni dal pensiero di Freud.

[4] Citato da Jones, op. cit., Vol. II, p. 313 (il corsivo è mio. E.F).

[5] Lettera a A. Zweig, 22 giugno 1936, citata da Jones, op. cit., Vol. II, p. 250.

[6] Ibid., pag. 167.

[8] Sachs, op. cit., pp. 8–9.

[9] Ibid., pp. 3–4.

[10] Ibid., pp. 16–17.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.